ciclo di incontri - Novembre 1995
Quaderno n. 67
Tempo del sacro, tempo della scienza
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Evoluzione, contingenza e storia
Stephen J. Gould


Franco Carlini
 

Sulla rete Internet c’è un computer della destra cattolica americana più tradizionalista. Contiene i discorsi del pontefice, le descrizioni dei suoi viaggi e molti documenti del magistero della Chiesa. Ospita anche due temi caldi per la cultura cattolica e i suoi rapporti con la scienza: sono la questione Galileo e la questione di Darwin.

Si tratta di due questioni brucianti e non solo per i cattolici. Una bella citazione di Freud, a sua volta ripresa da Gould, spiega il perché.

«Nel corso del tempo l’umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che la nostra terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile... La seconda, poi, quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione, gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale» (S. Freud, Introduzione alla psicanalisi, in Opere, vol. vii, Boringhieri, Torino 1976, p. 446).

La terza umiliazione, suggeriva Freud, è venuta dalla psicanalisi stessa, la quale mette in discussione la presunzione dell’uomo di essere un essere guidato prevalentemente (se non esclusivamente) dal raziocinio.

Il trauma di Galileo è stato superato e digerito. Dalla Chiesa, ma anche dal pensiero moderno il quale, anzi, attorno ad esso si è incardinato. In fondo è successo questo: che la grande narrazione sulle origini e i fini dell’umanità, fornita dal pensiero religioso, è stata sostituita -nel pensiero laico moderno- da un’altra narrazione con le stesse caratteristiche di globalità e di autosufficienza, quella scientifica. In particolare, quella proveniente dalle scienze esatte, matematizzate.

La scienza, nelle sue versioni più estremistiche, ha teso a presentarsi come l’unica spiegazione possibile e lecita. Anzi, di più che una spiegazione, come l’unica e indiscutibile, perché scientifica, appunto.

L’emergere delle scienze esatte e la loro egemonia hanno avuto innegabili pregi, che sarebbe sciocco negare. Meno che mai sembra il caso di andare dietro alle suggestioni anti-scientifiche o para-scientifiche che oggi vanno emergendo: nel pensiero ambientalista, per esempio, ma anche in quello femminista.

Comunque sono posizioni che legittimamente reagiscono alla tirannia delle scienze dure, che fanno un bilancio critico delle promesse mancate, che mettono in dubbio la sua stessa presunta razionalità. Le critiche riguardano:

·      la matematizzazione obbligatoria di tutte le scienze (c’è una discussione accesissima, in proposito, tra gli ecologi-teorico-matematici e quelli sul campo, più parenti dell’etologia all’aria aperta di Lorenz e di Tinbergen);

·      gli «orrori» prodotti dalla scienza: siamo nel cinquantesimo anniversario di Hiroshima, una ferita non sanata. Ma non solo il nucleare: si mettono in discussione i danni materiali, l’incapacità di prevederli e comuque la pretesa manipolatoria sulla natura.. Tra parentesi, anche questa è una discussione non semplice: infatti, una volta escluse le idee utopiche e fasulle del ritorno della natura allo stato di natura, qual è la differenza, dove si situa la linea di confine tra un normale intreccio di specie per produrre razze bovine migliori e la diretta manipolazione dei geni?

·      infine, anche dall’interno della scienza stessa, si registrano violenti scossoni. Il primo fu rappresentato dalla rivoluzione della fisica della prima metà del secolo (Heisenberg e il Principio di Indeterminazione), il secondo dalle matematiche non lineari, più giornalisticamente chiamate «teorie del caos».

Tra il trauma-Galileo e il trauma-Darwin, tuttavia, una differenza c’è. Sia perché è passato più tempo sia perché è stato possibile erigere dei recinti e degli ambiti di competenza; nel caso della rivoluzione copernicana e galileiana, il pensiero religioso si è, per così dire, chiamato fuori, saggiamente depurando il messaggio rivelato dalle sue descrizioni metaforiche. Tra scienza e fisica, per dirla grossolanamente, la convivenza è apparsa possibile, perché diversi sono gli ambiti. Lo scienzato non pretende di avere nulla da dire sull’esistenza di Dio, né sulla creazione, né sul futuro dell’uomo e, viceversa, il pensiero religioso non sente più alcun bisogno di sentenziare su come è fatto e come funziona il mondo fisico. Anzi, accoglie volentieri i contributi della scienza, anche perché sovente essi descrivono la perfezione del mondo e delle sue armonie.

Con Darwin e con l’evoluzione, le cose si sono fatte più complesse. E non solo per quanto riguarda il pensiero religioso, ma anche per quanto riguarda il pensiero laico e positivista, il pensiero moderno. Il problema nasce dal ruolo importante, pressoché decisivo, che l’evoluzione, nella versione darwiniana e poi in quella della «sintesi evoluzionista» di questo secolo, assegna al caso.

Già prima di Darwin, il primo tassello della teoria evoluzionista cominciava ad essere accettato, per la forza dei fatti. Di fronte ai ritrovamenti sempre più frequenti di fossili che non corrispondevano ad alcuna specie animale esistente, cadeva, per forza di cose, ogni ipotesi «fissista», basata cioè sull’immutabilità della specie, dal momento della loro comparsa (o creazione) ai giorni nostri. Era indiscutibile che delle specie animali a noi ignote e diverse dalle attuali erano esistite e poi scomparse, lasciando traccia solo nei fossili. Così come, viceversa, non c’era traccia fossile di molte delle specie attuali, che dunque andavano considerate nuove e recenti.

La contraddizione con il racconto biblico veniva risolta o suggerendo che la scomparsa fosse dovuta al Diluvio Universale e/o pensando a un processo di ripetuta creazione di nuove specie, sempre da parte del Signore. Ma queste erano contraddizioni, per così dire, minori, tra la lettera del racconto biblico, difesa dai più rigidi tra i teologi protestanti, e l’evidenza scientifica.

Su ben altre questioni sarebbe andato in crisi lo stesso Darwin, tanto da lasciar passare 24 anni tra il suo famoso viaggio con il brigantino Beagle, fino alle Galapagos, e la pubblicazione de L’origine della specie. Anni impiegati non solo a studiare e a verificare, in quella sorta di casa laboratorio che era la sua magione nel Kent, ma anche a cercare di governare la propria contraddizione interna. La quale riguardava il contrasto tra le evidenze scientifiche cui il suo lavoro lo portava e la sua cultura di uomo religioso e insieme di uomo dell’Ottocento, uomo dell’età vittoriana, fiduciosa nell’idea di progresso.

Darwin combattè una lunga lotta interiore in proposito, trovandosi in una di quelle situazioni senza via d’uscita. Alla fine dovette riconoscere che la sua teoria basilare del meccanismo evolutivo -la selezione naturale- non fa alcuna affermazione sul progresso. La selezione naturale spiega solo in che modo gli organismi si modifichino nel corso del tempo reagendo in modo adattivo ai mutamenti negli ambienti locali. Di qui il carattere più radicale della sua teoria. «Dopo aver riflettuto a lungo non posso evitare la convinzione che non esista alcuna tendenza innata a sviluppi progressivi» (lettera del 4 dicembre 1872).

Importante è il tema del gradualismo, che oggi studiosi come Stephen Jay Gould, paleontologo e docente ad Harvard, mettono in discussione o, quantomeno, ripensano. Il gradualismo comporta che i mutamenti evolutivi avvengano per piccolissimi ed infinitesimali passi e che anche i grandi cambiamenti, come il sorgere di una nuova specie, siano frutto dell’accumulo di questi micro-processi di variazione spontanea e selezione in rapporto all’ambiente. Di per sé non era un tassello essenziale, ma diventa importante per due valori ideologici che trascina con sé.

Intanto per Darwin era anche un modo per opporsi ai meccanismi esterni (come quello di una creazione continua, da parte della divinità esterna) e di riportare invece la spiegazione ad elementi esclusivamente terreni. Dall’altro, in seguito, l’idea di gradualismo è stata abusivamente assunta dalla storiografia come ulteriore esempio del fatto che in realtà il mondo segue un percorso lineare verso il meglio: che ci sia o no una divinità, in ogni caso c’è una direzione nell’evoluzione. Come la società migliore inevitabilmente, così anche nell’evoluzione, sia pure sulla base di meccanismi interni ed immanenti, c’è un senso, un cammino dal semplice al complesso, dal rudimentale all’ottimo.

Proprio qui si innesta, a partire dali anni ‘70, la revisione proposta da Niles Eldredge e Sthepen Jay Gould, che va sotto il nome di «equilibri puntuati» (Punctuated Equilibria) e che suscitò allora polemiche ferocissime, nemmeno oggi, a vent’anni di distanza, del tutto placate. In estrema e grossolana sintesi, la tesi dei due studiosi era questa: Darwin e tutti gli evoluzionisti classici hanno sempre trovato difficoltà a dar conto dell’assenza degli «anelli mancanti», cioè di fossili intermedi che registrino il passaggio graduale da una specie ad un’altra. La risposta di solito fornita è che ciò sia dovuto esclusivamente alla scarsità dei fossili stessi, la cui produzione e conservazione è assai delicata ed aleatoria. E’ possibile, invece, avanzare un’altra ipotesi: l’assenza di fossili intermedi non è dovuta al caso, ma piuttosto al fatto che l’evoluzione non è lenta, graduale e continua, ma, al contrario,essa intervalla lunghi momenti di stasi con periodi di veloce e rapida esplosione della specie. Quando si parla di «veloce» o «lento», si deve intendere, naturalmente, sui tempi geologici.

Ciò comporta essenzialmente due cose: un’ipotesi riguardante i meccanismi a livello di specie e un ruolo più accentuato riservato al caso. Due casi tipici sono l’esplosione del Cambriano, cui è dedicato il volume La vita meravigliosa, e l’estinzione di massa al termine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa. L’esplosione del Cambriano fu, in questa accezione, rapida e veloce, essendo durata solo 10 milioni di anni, da 530 a 520 myr, e con essa compaiono per la prima volta nei fossili tutti i phyla moderni. Tutto il libro La vita meravigliosa è dedicato all’analisi dei ritrovamenti fossili fatti nel 1909 da Charles Doolittle Walcott alle Burgess Shale, British Columbia. Senonché, Walcott cercò a tutti i costi -allora era comprensibile- di forzare quei fossili nei phyla oggi esistenti. Non era così: c’era un proliferare incredibile di specie, solo pochissime delle quali arrivarono fino a noi. Ma attenzione: quelli estinti non lo sono perché meno adatti o perfetti, ma largamente per effetto del caso, che può essere affidato al clima o persino a dei disastri esterni, come nel caso delle grandi catastrofi, che verosimilmente sono state prodotte da asteroidi in collisione con la terra. Questa visione contrasta vistosamente con la freccia del tempo, con l’idea di progresso verso il meglio, ben descritta in questa frase dello stesso Walcott:

«nei primi tempi dominarono i cefalopodi, seguiti dai crostacei, quindi presero probabilmente la guida i pesci, che però furono speditamente sopravanzati dai sauri. Questi rettili di terra e di mare prevalsero poi sino all’apparizione sulla scena dei mammiferi e, dalla successiva lotta per la supremazia, emerse infine l’uomo. Venne allora l’epoca delle invenzioni: dapprima di utensili di selce e di osso, di archi e frecce e di ami per la pesca; poi di lance e scudi, spade e armi da fuoco, fiammiferi, ferrovie, telegrafo elettrico» (manoscritto del 1892-94).

 

Al contrario, secondo Gould, la storia della vita è una storia di eliminazioni di massa, seguite da differenziazioni all’interno dei pochi ceppi superstiti e non il racconto convenzionale di un progresso costante verso una sempre maggiore eccellenza, complessità e diversità. Le iconografie familiari dell’evoluzione tendono invece tutte -a volte rozzamente, altre volte in modo più sottile- a rafforzare un’immagine confortevole dell’inevitabilità e superiorità umana.

Sono due le metafore di solito preferite, anche nei libri di testo: la scala della vita: la marcia del progresso è la rappresentazione canonica dell’evoluzione; il cono della diversità crescente, iconografia classica, in cui la posizione del tempo si combina con un giudizio di valore.

La vita in evoluzione, al contrario, non è né una scala né un albero con pochi rami: è semmai un cespuglio che si ramifica copiosamente, «continuamente sfrondato dalla sinistra mietitrice dell’estinzione», non una scala di progresso prevedibile. E se l’umanità è sorta solo ieri su un ramoscello secondario di un albero rigolgioso, la vita non può esistere per noi o a causa nostra. «Forse noi siamo solo un ripensamento, una sorta di accidente cosmico, una decorazione appesa all’albero di natale dell’evoluzione».

Queste immagini sono adottate perché alimentano la nostra speranza di un universo dotato di un significato intrinseco. Anche il racconto primario della Genesi presenta un mondo vecchio solo di qualche migliaio di anni, abitato da esseri umani con la sola eccezione dei primi cinque giorni e popolato da creature create a nostro beneficio e subordinate ai nostri bisogni.

La freccia del tempo ben si presta a descrivere l’unicità degli eventi storici, pur marcandoli come distinti. La storia è sequenza irreversibile di eventi irripetibili. Tutti i momenti narrano una storia di eventi connessi fra loro che muovono in una direzione. E’ anche la concezione ortodossa della maggior parte degli occidentali colti di oggi. Richard Morris:

«I popoli antichi credevano che il tempo avesse un carattere ciclico... Noi pensiamo invece abitualmente al tempo come a qualcosa che si estende in linea retta nel passato e nel futuro... Il concetto lineare di tempo ha avuto effetti profondi sul pensiero occidentale. Senza di esso sarebbe difficile concepire l’idea di progresso o parlare di evoluzione cosmica o biologica».

Si noti che nell’idea di freccia del tempo ci sono due concetti: unicità degli eventi e direzione (così come un vettore). Mircea Eliade (Le mythe de l’éternel retour) spiega così: la maggior parte delle culture sono arretrate di fronte alla nozione che nella storia non ci sia nulla di permanente.

«Ma l’interesse per l’irreversibilità e la novità della storia è una scoperta recente nella vita dell’umanità. Al contrario, l’umanità arcaica si difendeva come poteva contro tutto ciò che la storia comportava di nuovo e di irreversibile».

 

Così il ritorno del ciclo del tempo in alcune teorie moderne è benvenuto perché

«la formulazione in termini moderni di un mito arcaico tradisce almeno il desiderio di trovare un senso e una giustificazione trans-storica agli avvenimenti storici».

 

All’altro estremo, secondo Gould, c’è l’idea di ciclo del tempo che descrive la «regolarità dell’obbedienza ad una legge, per stabilire una base di intelligibilità. Gli stati fondamentali sono immanenti nel tempo, sempre presenti e mai soggetti a mutamento. I moti apparenti sono parte di cicli che si ripetono, e differenze del passato saranno realtà del futuro. Il tempo non ha una direzione».

Tra questi due grandi poli, egli osserva, si bilanciano le tradizioni ebraico-cristiane, tra storicità degli eventi, come la creazione, il diluvio, l’incarnazione di Cristo, e la trascendenza al di là del tempo.

Tuttavia, rifiutare il cono e la scala, la freccia del tempo, non significa necessariamente che allora è solo caos, caso, e che «Dio gioca a dadi». C’è una terza possibilità: «ogni ripetizione del film della vita condurrebbe l’evoluzione su una via completamente diversa da quella intrapresa in realtà. Ma le differenze conseguenti nell’esito non significano che l’evoluzione sia priva di significato. Sarebbe altrettanto interpretabile, altrettanto spiegabile, a posteriori, quanto la vita reale».

Solo la diversità dei possibili itinerari dimostra che i risultati finali non possono essere predetti fin dal principio. Ogni passo procede sulla base di precise ragioni, ma non si può specificare un finale fin dal principio, e nessun finale si verificherebbe mai una seconda volta nello stesso modo perché ogni via procede passando per migliaia di fasi improbabili. Se cambia un evento remoto, anche di pochissimo e in un modo privo di alcuna apparente importanza, l’evoluzione imboccherà un canale radicalmente diverso. Questa è l’essenza della storia, la contingenza.

(La scienza -andrà notato- è stata lenta ad ammettere la storia, considerando ogni invocazione della storia meno elegante o meno significante di spiegazioni fondate su immutabili leggi di natura).

 

SCHEDA

Ernst Mayr, Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, cap. 9.

La teoria di Darwin si basa su 5 fatti e 3 inferenze.

Fatti:

1. Tutte le specie hanno una fertilità potenziale così elevata che crescerebbero esponenzialmente.

2. Tuttavia, fluttuazioni a parte, le popolazioni sono stabili.

3. Le risorse naturali sono limitate e, in un ambiente stabile, sono circa costanti.

® Inferenza 1: deve esserci una feroce lotta per l’esistenza tra gli individui di una popolazione, il cui esito è la sopravvivenza di una sola parte, sovente piccola, della progenie.

4. Non esistono due individui esattamente uguali: enorme variabilità dietro ogni popolazione.

5. Gran parte di questa variabilità è ereditabile.

® Inferenza 2: la sopravvivenza nella lotta per l’esistenza non è casuale, ma dipende in gran parte dalla costituzione ereditaria degli individui che sopravvivono. Questa ineguale sopravvivenza è il processo della selezione naturale.

® Inferenza 3: nel corso delle generazioni questo processo condurrà a un continuo cambiamento graduale delle popolazioni, cioè all’evoluzione e alla produzione di specie nuove.

Cruciale fu l’introduzione di un modo di pensare per popolazioni, un concetto statistico.

A sua volta, quella di Darwin è una teoria composta di diverse teorie:

1.    L’evoluzione come tale: il mondo non è costante (fissismo), nascono e scompaiono le specie. Ma non è pura sostituzione di vecchie con nuove. Né «creazione permanente».

2.    L’evoluzione per discendenza comune: un unico antenato, per ramificazioni. C’è una sola origine della vita. Una volta sola. Così si spiegano tanti aspetti dell’anatomia comparata e, in seguito, l’unicità del codice genetico. Anche l’uomo viene inserito nell’albero della discendenza comune.

3.    Gradualità dell’evoluzione: contrasta con il fatto che, ovunque si osservi la natura, il fatto più apparente è la discontinuità. Darwin spiega la diversità attraverso il duplice processo di divergenza dei caratteri e di estinzione. Alle discontinuità, di solito, si attribuiva carattere soprannaturale.

4.    Speciazione popolazionale.

5.    Selezione naturale, che elimina l’esigenza di qualsiasi teologia naturale.

(Testo redatto dall’Autore)

Bibliografia

Stephen J. Gould, La freccia del tempo, il ciclo del tempo, Feltrinelli, Milano 1989

Stephen J. Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1990
(I due tra i molti saggi di Gould che più si riferiscono al tema dell’evoluzione e del tempo)

Niles Eldredge, Il canarino del minatore, Sperling & Kupfer, Milano 1995
(Uno dei due autori della teoria degli «equilibri puntuati» analizza la storia delle estinzioni nella vita del nostro pianeta)

Paolo Rossi, I segni del tempo. Storia delle Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 1979

Giuseppe Gaudenzi, Evoluzionismo, Editrice bibliografica, 1995
(Breve saggio divulgativo, ma assai aggiornato e preciso)

Adrian Desmond - James Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1992
(Monumentale biografia di Darwin)

Ernst Mayr, Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1992
(Opera fondamentale, scritta da uno dei padri della «Sintesi» evoluzionista)

Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (1949), Borla, Assisi 1968

Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993

Franco Carlini, Tornano i DNAsauri, Manifesto Libri, Roma 1993

 

 

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